Esiste una crisi del modello occidentale per la ricerca di base?
Il modello occidentale per la ricerca di base è il risultato di un lungo processo evolutivo cominciato nel 1600 con l’introduzione del metodo scientifico da parte di Galileo, e con la costruzione delle Università in Europa, dove insegnamento e ricerca si fondono nello stesso luogo fisico e sono portate avanti dagli stessi scienziati. Concetto ripreso e portato oltre oceano alla fine del diciannovesimo secolo da Abraham Flexner, che rifondò seguendo questo schema le medical schools americane. Flexner andò oltre, codificando la struttura e la finalità di un istituto di ricerca di base, e mettendo in pratica queste idee fondando l’Institute of Advanced Studies di Princeton. Sulla scia di Flexner, Vannevar Bush a cavallo della seconda guerra mondiale getta le fondamenta di quella che è la moderna struttura di ricerca di base statunitense, tra le altre cose contribuendo a creare la National Science Foundation, con la missione di promuovere il progresso della scienza utilizzando capitali pubblici. Il modello occidentale per la ricerca di base ha ottenuto strabilianti successi, e certamente il mondo non sarebbe oggi quello che è senza l’affermazione di questo modello (Capitolo 1).
Che ovviamente nel tempo si è modificato, adattandosi ai momenti storici. Una delle domande che ci siamo posti nel prologo è come si è modificato il modello, e se l’odierna variante è davvero la più adatta ed efficiente a promuovere un progresso paragonabile a quello esponenziale a cui siamo stati abituati fin ora. In altre parole, stiamo osservando la fine del progresso esponenziale, e quindi indizi di una crisi del modello occidentale per la ricerca di base?
Nei capitoli precedenti abbiamo incontrato più di un indizio di questo tipo. Abbiamo constatato che il sistema della ricerca oggi in Italia e nel mondo occidentale soffre probabilmente del problema di una creatività limitata. Più fenomeni, spesso correlati tra loro in maniera complicata, concorrono a generare quella che si può definire una tempesta perfetta.
Primo. A partire dagli anni ‘90 si assiste ad una decrescita dell’intensità di spesa pubblica in ricerca e sviluppo in tutto il mondo occidentale (Capitolo 2). In UK la decrescita comincia addirittura un decennio prima. Allo stesso tempo, il numero di ricercatori è continuato a crescere, come anche la frazione di fondi destinati a grandi progetti. Di conseguenza, in media, i fondi a disposizione di ogni ricercatore sono diminuiti sostanzialmente in tutta Europa dagli anni 80-90 ad oggi (sono rimasti quasi costanti negli Stati Uniti, Capitolo 3). La quantità di fondi destinati a grandi progetti è però cresciuta ovunque, e quindi i fondi a disposizione della ricerca indipendente per ricercatore sono diminuiti e molto in tutto il mondo occidentale. Questo ha sviluppato un effetto di selezione naturale tra i ricercatori.
Secondo. Il trend descritto al punto precedente ha prodotto uno sbilanciamento rilevante verso un modello di scienza competitiva (Capitolo 10). Una delle conseguenze è che per trovare un posto di lavoro, per fare carriera, per ottenere fondi di ricerca è necessario pubblicare il più possibile, e per fare questo naturalmente si tendono ad affrontare problemi facili e meno rischiosi. E soprattutto si tende a lavorare in settori alla moda, che possano garantire molte pubblicazioni e citazioni, e che garantiscano di essere almeno riconosciuti dalle commissioni d’esame o da quelle di selezione dei fondi. Questo ha limitato e limita fortemente la ricerca indipendente, la spinta a seguire sentieri tortuosi e meno battuti.
Terzo. Il sistema di reclutamento nel mondo occidentale è sbilanciato verso posizioni a termine, pagate o da grandi progetti o da grants ottenuti da ricercatori più senior (Capitolo 3). Solo uno ogni 7-30 studenti di dottorato di ricerca avrà accesso ad una Università o a un ente di ricerca pubblico, e con uno stipendio non competitivo con il privato. Il risultato è che i migliori studenti non sceglieranno le Università o gli enti pubblici di ricerca per la loro carriera. Quelli che rimarranno nel sistema non riusciranno a trovare un impiego fisso prima dei quaranta anni. Giovani scienziati oggi lavorano su contratti a tempo determinato per lo più su idee che non sono le loro, ma dei loro datori di lavoro. Hanno poche opportunità per sviluppare linee di ricerca indipendenti. Gli anni che sono ritenuti i più fruttiferi dal punto di vista della creatività sono invece destinati a trovare una occupazione fissa e a lavorare per il beneficio dei loro datori di lavoro, che potranno poi fregiarsi di tassi di pubblicazione alti, fare ulteriore carriera, trovare ulteriori fondi per assumere nuovi post-doc.
Quarto. Il sistema della Big Science naturalmente implica centralizzazione delle risorse, specializzazione e limitata indipendenza (Capitolo 5). Migliaia di ricercatori, giovani e vecchi, lavorano su concetti e idee sviluppati da una minuscola frazione di ricercatori senior. La cosa peggiore è però che l’attività della maggior parte dei ricercatori è concentrata in ambiti limitati, molto specializzati, e questo difficilmente permette a giovani ricercatori di sviluppare tutti gli skill necessari per poter prima ideare e poi costruire un esperimento in maniera indipendente. Senza questa essenziale gavetta, è veramente poco probabile che un ricercatore riesca poi in futuro a trasformarsi nel dirigente in grado di ideare e condurre il prossimo grande progetto.
Le conseguenze di questi fatti sono state discusse a lungo nella letteratura specializzata, ad esempio si può consultare il saggio Is American Science in Decline?[1], dove accanto a note certamente positive vengono anche messi in luce diversi sintomi negativi simili a quelli menzionati sopra. Già una dozzina di anni fa la National Academy of Science degli Stati Uniti pubblicava un report molto preoccupato su questi problemi[2].
Ho già ricordato come alcuni fisici teorici ritengono che negli ultimi 30 o 40 anni i progressi nella fisica teorica siano stati per lo più incrementali, neanche lontanamente paragonabili a quelli dei 40 anni o 80 anni precedenti. Questa affermazione è sostenuta anche dall’analisi dei premi Nobel in fisica negli ultimi 60 anni. Tra il 1961 e il 1990 il 50% dei premi Nobel in fisica è andato a ricerche di fisica teorica e di fisica delle particelle, il 3% a ricerche di astrofisica e il 46 % a ricerche di struttura della materia. Nei 30 anni seguenti, dal 1991 al 2020 la frazione di Nobel in fisica teorica e particelle si è dimezzata, totalizzano il 25 % di tutti i premi Nobel in fisica. La frazione di Nobel a ricerche di astrofisica è aumentata tantissimo, raggiungendo il 19% (non si puo’ non notare che 3 degli ultimi 4 anni hanno premiato ricerche di astrofisica (Genzel, Ghez e Penrose per ricerche sui buchi neri nel 2020, Mayor e Queloz per la scoperta dei pianeti extrasolari e Peebles per ricerche in cosmologia, Weiss, Barish e Thorne per l’osservazione delle onde gravitazionali). Il 56% dei Nobel in fisica infine e’ andato a ricerche di struttura della materia negli ultimi 30 anni.
Certo si può sicuramente sostenere che, al contrario della fisica teorica, campi come la genetica molecolare o l’information technology stanno vivendo una fase di sviluppo eccezionale, e che quindi non sia la Scienza nel suo complesso a vivere una crisi, ma forse solo un campo ristretto. Credo però che non sia molto saggio sottovalutare i sintomi esposti nei capitoli precedenti e riassunti qui sopra. Sintomi che, come in tutte le malattie, richiedono prima una diagnosi e poi un’azione.
[1] Is American Science in Decline? 2012, Xie & Killewald, Harvard University press
[2] Rapporto della National Academy of Science statunitense: Rising Above the Gathering Storm, 2007